Nerone e la ricostruzione di Roma
La notte tra il 18 ed il 19 luglio del 64 d.C., il grande incendio di Roma che bruciò tutti i palazzi del Palatino, lasciò senza casa oltre duecentomila romani che abitavano nella Suburra, uno dei quartieri più popolosi e più poveri di Roma.
L’imperatore Nerone era ad Anzio quando scoppiò l’incendio, tornò immediatamente a Roma e cominciò a prendere le decisioni che non ci si aspetterebbe da lui, almeno secondo quanto alcuni storici hanno raccontato.
L’incendio durò in tutto nove giorni: il fuoco iniziò nelle tabernae del Circo Massimo e subito aggredì i palazzi del Palatino, dell’Aventino e del Celio; non si riusciva a fermarlo con l’acqua e così si decise di abbattere le case della Suburra e delle Carine alle pendici dell’ Esquilino. Al sesto giorno l’incendio sembrò fermato ma poco dopo focolai sparsi ripresero vita e Roma continuò a bruciare per altri tre giorni.
Le Regio VII-Via Lata, IX-Circus Flaminius, XIV-Transtiberim, ovvero l’isola Tiberina e il quartiere in riva sinistra del Tevere e il Campo Marzio si salvarono dal fuoco.
Bruciarono 4000 insulae e 132 domus oltre a templi ed edifici pubblici, i morti furono migliaia e per gli sfollati, Nerone fece costruire dei baraccamenti nella zona di Campo Marzio, uno delle poche che si erano salvate dal fuoco e diede disposizioni anche per calmierare il prezzo del grano.
La ricostruzione cominciò presto; si provvide a recuperare ciò che era possibile dagli edifici bruciati, ma ciò che non era recuperabile fu semplicemente demolito e le macerie sparse a livellare il terreno; l’abbattimento degli edifici bruciati su Palatino, Celio ed Esquilino produsse tante macerie che la quota del terreno fu innalzata di 4/5 metri, in più Nerone ordinò di utilizzare le barche che ridiscendevano il Tevere vuote dopo aver sbarcato il grano, per portare le macerie inutilizzabili nelle paludi di Ostia.
In antichità era consuetudine che per la ricostruzione i materiali laterizi e lapidei - quando non riutilizzabili - non venivano trasportati via ma interrati ai livelli inferiori degli edifici distrutti per cui diventavano nuovamente utilizzabili come caementa o fondazioni con il risultato che, causa dei numerosi incendi ed allagamenti, il livello del Foro Romano nei circa 1000 anni in cui è stato il centro vitale di Roma ha visto man mano innalzare la sua quota del livello di camminamento in alcuni punti anche di 10 metri.
Nella zona dell’attuale Via di San Gregorio tra il Colosseo e Porta Capena, nel VII-Vi secolo a.C. la quota del terreno sul livello del mare era di m. 10,5, all’inizio del I secolo a.C. era di 13 m. e dopo l’incendio di età neroniana era di m. 17, come dire che lungo quel tratto di strada che era percorso dalle pompe dei Trionfi, furono riversate macerie per ben 4 metri di profondità; oggi la quota slm è di m.22, quindi ci sono voluti duemila anni perché materiali di riporto ( lasciati in prevalenza dalle inondazioni del Tevere) determinassero un innalzamento simile a quello che si ottenne scaricando lungo la valletta tra Palatino e Celio quanto era bruciato in nove giorni.
Tacito negli Annales racconta che l’incendio aveva posto in rilievo come il “disordine” in cui era stata ricostruita Roma dopo il sacco dei Galli Senoni nel 390 a.C. avesse ostacolato gli interventi dei vigiles e, inoltre, i vicolo troppo stretti e le tettoie di legno delle insulae avevano favorito la propagazione delle fiamme per poi elencare quali furono le disposizioni dell’imperatore. Nerone si preoccupò di iniziare la ricostruzione “calcolando l’allineamento delle vie e la carreggiata ampia delle strade, ponendo limiti di altezza agli edifici, con vasti cortili e con l’aggiunta di portici per proteggere le facciate degli isolati. Nerone promise di costruire i portici a sue spese e di restituire ai loro proprietari le aree sgombre dalle macerie” ...
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di M.L. ©RIPRODUZIONE RISERVATA (Ed 1.0 - 11/09/2016)
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